Alma universitas studiorum parmensis A.D. 962 - Università di Parma
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Parma, 21 luglio 2017 – A Marco Roveri, docente di Geologia Stratigrafica e Sedimentologica nel Dipartimento di Scienze Chimiche, della Vita e della Sostenibilità Ambientale dell’Università di Parma, e ai co-autori Vinicio Manzi (docente dello stesso Dipartimento), Rocco Gennari, Stefano Lugli, Nicola Minelli, Matteo Reghizzi, Angelo Riva, Massimo E. Rossi e B. Charlotte Schreiber, è stato assegnato il premio Norman Falcon 2017, istituito dall’European Association of Geoscientists & Engineers (EAGE), per il miglior articolo scientifico pubblicato nel corso del 2016 sulla rivista Petroleum Geoscience. L’articolo si intitola “The Messinian salinity crisis: open problems and possible implications for Mediterranean petroleum systems”.

Marco Roveri e i co-autori, docenti e ricercatori presso le Università di Parma, Modena e Reggio Emilia, Torino, Washington, studiano da molti anni il complesso di eventi geodinamici e climatici che portarono circa 6 milioni di anni fa (durante l’intervallo di tempo denominato Messiniano) alla pressoché totale chiusura delle connessioni tra l’Oceano Atlantico e il Mediterraneo. Questo modificò il bilancio idrologico del Mediterraneo che si trasformò rapidamente in una gigantesca salina, determinando grandi modificazioni ambientali e una drammatica crisi ecologica. La memoria geologica di questo evento, noto come “crisi di salinità del Messiniano”, è rappresentata dai grandi depositi di rocce evaporitiche (gesso e salgemma) che caratterizzano il paesaggio di molte aree emerse circum-mediterranee e dei fondali marini più profondi, dove si stima si sia accumulato almeno un milione di km3 di sali. Queste rocce hanno avuto e hanno tuttora grande importanza da un punto di vista paesaggistico e ambientale, ma anche un forte impatto economico e sociale nella storia dei paesi mediterranei poiché ad esse sono state collegate importanti attività estrattive di materiali da costruzione, sali per uso alimentare e industriale (gran parte di quello usato quotidianamente proviene da miniere in Sicilia) e zolfo.

Il modello più noto formulato per spiegare la crisi di salinità (il modello “shallow-water deep-basin”) prevede che i sali si siano accumulati in un Mediterraneo quasi completamente disseccato e con fondali a quasi 2000 metri sotto il livello dell’oceano; la fine di questo evento sarebbe avvenuta 5,33 milioni di anni fa per la rottura catastrofica della barriera di roccia che separava Atlantico e Mediterraneo nella zona di Gibilterra.

Roveri e i co-autori, sulla base di studi interdisciplinari condotti negli ultimi venti anni, hanno proposto un modello alternativo, meno catastrofico, che prevede la permanenza di una considerevole massa d’acqua nel Mediterraneo durante tutto il corso della crisi e la formazione delle rocce evaporitiche in ambienti subacquei anche profondi.

La piena conoscenza delle cause, della tempistica e delle modalità di svolgimento della crisi, il suo impatto sugli ambienti e sulle biocenosi marine e terrestri, sono oggetto da decenni di un acceso dibattito scientifico, anche per le importanti implicazioni relative alla comprensione dei meccanismi che regolano la risposta degli ecosistemi ai cambiamenti climatici.

La crisi di salinità messiniana ha anche risvolti significativi nell’ambito della formazione e preservazione di idrocarburi nell’area mediterranea. Nell’articolo premiato il gruppo di ricercatori discute gli aspetti ancora irrisolti di questo evento, mette in discussione il modello del disseccamento e sostiene che un modello alternativo è non solo possibile ma anche più probabile. Lo studio affronta il tema delle possibili implicazioni che il modello alternativo può avere per una valutazione più corretta del potenziale dei sistemi petroliferi del Mediterraneo e delle aree adiacenti (tra cui il Mar Nero). Questo nuovo scenario prevede infatti che durante la crisi possano essersi formate importanti “source rocks” (rocce madri) di idrocarburi e che l’assenza di grandi oscillazioni del livello marino del Mediterraneo, determinate dal disseccamento prima e dal successivo riempimento alla fine della crisi, possa aver impedito i catastrofici processi - previsti dal modello classico - di depressurizzazione e conseguente espulsione precoce e degradazione di idrocarburi formatisi in precedenza e apre quindi nuove prospettive alla ricerca in questo campo.

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